Com’è nata l’idea delle safe injection rooms? Non è semplice offrire un quadro storico completo su questi servizi, ormai diffusi in molti paesi, con culture, politiche e organizzazione dei servizi diverse: dalle prime esperienze di auto aiuto dei consumatori in Olanda, a quelle in Germania, Svizzera, e, più di recente, in Spagna. Per non parlare di quelle al di fuori dell’Europa, in Australia, Canada e Brasile. Tuttavia, per comprendere l’originaria ispirazione delle “stanze del consumo”, è utile rifarsi alle prime esperienze pilota, come quella di Francoforte degli inizi degli anni ’90. Illuminanti sono a proposito le parole di Juergen Weimer, coordinatore dei servizi tossicodipendenze della municipalità, in un’intervista rilasciata a Fuoriluogo (febbraio, 2003): “Le safe injection rooms sono un naturale sviluppo dei servizi a bassa soglia. Quando già esistono i centri che offrono siringhe pulite e counselling per assumere la droga nella maniera più sicura possibile, è logico offrire un luogo igienicamente protetto per l’iniezione. Le “stanze del consumo” rientrano in un sistema di rete di aiuto che ha il compito di raggiungere il maggior numero possibile di consumatori”.
Le stanze del consumo si inseriscono dunque in un sistema di servizi complesso e articolato. Anzi, a Francoforte sono integrate anche logisticamente in centri polivalenti, dove si offrono prestazioni diverse di bassa soglia e di soglia più elevata (accoglienza diurna, counselling e siringhe, accoglienza notturna, assistenza medica, fino ai trattamenti per la tossicodipendenza ).
Se ne deduce che le safe injection rooms si collocano in una strategia di “sanità pubblica” applicata alle droghe, il cui obiettivo è appunto quello di tutelare al meglio la salute di tutti i cittadini, in questo caso di tutti i consumatori, in primo luogo. Non è un caso che i paesi “pionieri” nel campo, Olanda e Germania, ma anche Svizzera, abbiano una tradizione consolidata di sanità pubblica e di Welfare.
E tuttavia si sa che, nel campo delle droghe, l’approccio moralistico (corollario della legge penale) da sempre contrasta con la difesa della salute: perciò l’applicazione dei principi di sanità pubblica alla tossicodipendenza è spesso oggetto di controversia. Così, anche nel Nord Europa, l’apertura delle safe injection rooms è stata all’inizio accompagnata da polemiche. E sono risuonate le stesse accuse a suo tempo avanzate contro i programmi di scambio siringhe: di “avallare” il consumo, in contrasto col principio “morale” (e penale) della “società libera dalla droga”. Onde, secondo questa logica, il sistema dei servizi non avrebbe il compito di tutelare la salute di tutti, ma solo di quelli ritenuti “meritevoli” e disponibili al trattamento unico : che, in coerenza, persegue il solo obiettivo di sopprimere il comportamento “moralmente” riprovevole, indipendentemente dalla volontà e dalle possibilità dei soggetti in causa. E’ una filosofia del “pentitismo” applicata alla sanità, chiaramente discriminatoria, e dunque in contrasto coi diritti universali di cittadinanza.
Perciò, lo sviluppo di una rete diversificata di servizi, di cui le “stanze del consumo” rappresentano un nodo importante, sancisce il prevalere dell’approccio sanitario e di welfare dei diritti su quello moralistico-penale. A riprova, valgono le motivazioni con cui nel 1992 la Procura generale del Land dell’Assia dette parere favorevole alla prima safe injection room di Francoforte, superando l’ostacolo della legge sulla droga, che penalizza il consumo personale: la salute, individuale e collettiva, è stabilita come un “bene” sociale prioritario rispetto alle istanze punitive.
Nel 1999, ho avuto modo di visitare uno di questi servizi nella città tedesca di Hannover. Ho parlato a lungo con gli operatori, in particolare con Gregor Biobart, allora responsabile del centro per conto di un’associazione del privato sociale, la STEP. Fino agli inizi degli anni ’90, la STEP aveva gestito dei consultori che avevano il compito di avviare i consumatori ai trattamenti di disintossicazione. In una logica di “tolleranza zero”- spiegava Gregor – nessuna assistenza veniva offerta a chi non voleva smettere di drogarsi. Mi venne fatto di chiedergli come, con questo retroterra, egli vivesse oggi questo servizio “di frontiera” sulla strada, e quale fosse il senso del suo lavoro. “Accettare la tossicodipendenza e i tossicodipendenti, accettare le persone per come sono”, mi rispose.
Una semplice ma efficace definizione dell’etica della relazione fondata sul rispetto dell’altro. Un tempo, prima dell’uso e abuso di questa parola, si sarebbe detta l’etica della solidarietà. Quella alla base dei diritti di cittadinanza.